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Fatalista è la società che crede che nessuna scienza dell’avvenire sia possibile. È conoscenza senza possibilità di azione
C’è però anche un antifatalismo ingenuo, basato su una “metafisica da supermercato” (J-P Dupuy). Questa non fa che incoraggiare il ripiegamento su sé e favorire l’agitazione del panico e altri fenomeni della folla incontrollata. È azione cieca, fuori da ogni conoscenza.
La speranza, la costruzione dell’avvenire non è un obiettivo di conoscenza (non è possibile conoscere il futuro) ma il prodotto della volontà. Ciò non significa che la conoscenza non abbia un ruolo decisivo. La conoscenza però è fattore economico solo quando il sapere diventa azione.
Non è la mancanza di conoscenza, infatti, che spiega come mai non si agisce tempestivamente, ma il fatto che il sapere non si trasforma in credenza.
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Il metodo del catastrofismo illuminato, proposto da Jean-Pierre Dupuy , consiste nel fare come se il destino fosse la catastrofe, ma nel considerarla come evento che siamo liberi di rifiutare. La catastrofe è molto più credibile se si presenta come fatalità. In questo modo il sapere si trasforma in credenza. Si rifiuta il destino per evitare un esito disastroso. Questa credibilità, una volta assicurata, produce lo slancio motore che mobilita risorse di immaginazione, intelligenza, determinazione, necessarie per la prevenzione.
Questo metodo “catastrofico” è l’opposto del fatalismo.
Nell’individualismo la paura è implosiva (ci si arrende come spettatori della globalizzazione), nel comunitarismo è esplosiva (prevale la paura irrazionale del diverso). Una società più complessa ma anche esposta a nuove minacce, richiede scelte e competenze aperte, coraggiose, articolate. La teoria dell’attore razionale ha presupposto il cittadino moderno come un soggetto egoista e calcolatore, ha inteso la razionalità come ricerca esclusiva dell’utile. Ci troviamo ora nella condizione di:
“Pensare senza tregua un mondo che esce, in modo lento e brutale insieme, da tutte le certezze acquisite di verità, di senso, di valore”
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Solo la paura della perdita del mondo può spingerci ad assumere responsabilmente il problema della sua custodia. Conoscere e riconoscere la paura svolge quindi una funzione cognitiva, produttiva e mobilitante . È la paura che ci fa vedere il pericolo e c’induce all’azione.
La paura però ha anche una carica distruttiva; paura liquida, quando diventa percezione della perdita di controllo sugli eventi; paura globale quando si abbina alla sensazione di ingovernabilità del mondo. Si può fondare il potere assoluto sulla paura reciproca di tutti verso tutti (Hobbes); si possono affossare i mercati con lo spettro della paura e del sospetto.
Il catastrofismo illuminato vede la possibilità della catastrofe ma attiva la paura per una metamorfosi produttiva della capacità di immaginare il futuro. La lucida accettazione della fine dell’immunità, nella consapevolezza della catastrofe, apre all’incontro con l’altro, al riconoscimento solidale tra diversi, alla disponibilità alla reciproca “contaminazione” (il meticciato) nella comunità.
Nella fragilità mortale dell’umano è contenuto un appello irresistibile alla responsabilità.
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